sabato 8 dicembre 2012

Politicizzazione della giustizia e giudizializzazione della politica - cronache dalle lontane regioni del mondo

Tempo fa mi capitò di assistere, al Salone di Torino, a una presentazione di un libro, mi pare, sulla costituzione italiana. Il programma segnalava, tra i partecipanti, Gustavo Zagrebelsky, allora presidente della Corte Costituzionale. Alla presentazione, Zagrebelsky rivestì il ruolo del morto a tresette: dalla platea fece infatti annunciare dal moderatore che, in quanto presidente della Corte Costituzionale, non avrebbe preso la parola in pubblico, né avrebbe partecipato al dibattito. C'era, ma era come se non ci fosse stato.
Questo episodio mi è tornato in mente qualche settimana fa, mentre mi trovavo in Brasile e seguivo alla televisione la cronaca dell'insediamento del nuovo presidente del Supremo Tribunal Federal, Joaquim Barbosa. Politici, personaggi famosi, attori, cantanti, affollavano il lato giudiziario di Praça dos três poderes, a Brasilia, in favor di telecamera. A seguire, grande party celebrativo, raccontato al minuto da televisioni e stampa. Tanta foga e tanta enfasi per l’insediamento del presidente della corte suprema non può che stupire un italiano. In Italia, il presidente della Corte Costituzionale, cioè la quinta carica dello Stato, è sconosciuto ai più, forse persino a buona parte dei giuristi che non si occupino di diritto costituzionale. In Brasile i giudici del Supremo Tribunal Federal sono noti come sono noti gli uomini politici e, soprattutto in caso di decisioni controverse o su problemi sentiti (come quella recente sul matrimonio omosessuale), sono intervistati sui giornali e le televisioni, spesso mentre il caso è ancora in discussione.
Ci sono paesi ai quali è talmente difficile prendere le misure, tanto diverse sono le proporzioni con le nostre consuetudini, da sembrare impossibile che quel che vi accade possa davvero dirci qualcosa. Possiamo solo, a prima vista, limitarci alla pura cronaca. È, per certi aspetti, il caso del Brasile, e il confronto tra la nostra Corte Costituzionale, un tribunale che neppure pubblica i voti di minoranza e le opinioni dissenzienti (come ad esempio fa l'omologa corte portoghese) e il Supremo Tribunal Federal sembra dimostrarlo. La suprema corte brasiliana, negli ultimi anni, ha fatto della pubblicità una bandiera. Pubblicità non solo dei dibattimenti, ma anche di quello che noi chiameremmo “camera di consiglio”: quel dibattito tra i giudici che conduce al voto, e che da noi è coperto dal più completo segreto. In Brasile, invece, è trasmesso alla televisione, in un canale apposito, e chiunque lo desideri ha la possibilità di seguire l’andamento del caso, in tutte le sue fasi. C’è chi loda la trasparenza, chi sottolinea i rischi di “politicizzazione” della giustizia, legata anche all’inevitabile protagonismo che la pubblicità dei dibattiti porta con sé.
Anche da questo punto di vista, tuttavia, il caso di Joaquim Barbosa è eccezionale. Non solo perché è il primo negro (dizione politicamente corretta in portoghese) che diventa presidente del Supremo: un giudice di umili origini che incarna, con la sua biografia, i progressi sociali che, seppure tra mille contraddizioni e in misura ancora limitata, stanno avvenendo in Brasile. Ma soprattutto perché la sua ascesa alla presidenza della suprema corte avviene in coincidenza del caso del cosiddetto “mensalão”, nel quale ha rivestito un ruolo chiave. È infatti in corso, di fronte al Supremo Tribunal Federal, il giudizio su uno dei più clamorosi casi di corruzione che si siano avuti in Brasile. Godendo del diritto costituzionale di essere giudicati da un “foro privilegiato”, deputati e ministri del partito dell’ex presidente Lula e dell’attuale presidente Dilma Roussef (il Partido dos Trabalhadores) sono stati chiamati a rispondere di fronte alla suprema corte. Tra di essi, vi sono molti artefici della stagione di Lula, a partire dal suo stretto collaboratore ed ex ministro José Dirceu. Di questo caso, Barbosa è il relatore, ovvero, diciamo così, l’accusa. Nominato da Lula e considerato un giudice “di sinistra”, egli ha rivestito il suo ruolo con durezza e severità, in un certo modo riscattando l’immagine della giustizia brasiliana, e forse del Paese intero. Tuttavia, c’è chi si chiede se dietro tanta durezza non si celi un disegno politico. Ora qui si vede come si può parlare di paesi remoti e trovar somiglianze nelle differenze, come accadeva con certi moralisti del Settecento, che usavano l'artificio retorico della cronaca di viaggio per parlar del proprio paese.
Barbosa, si diceva, non è un giudice qualsiasi. Soprattutto, è uno dei giudici che più hanno caratterizzato questa nuova fase del Supremo Tribunal Federal, contrassegnata da un maggiore protagonismo. Una stagione a proposito della quale alcuni hanno paventato il rischio di una “politicizzazione della giustizia”, con riflessi negativi sulla coerenza delle decisioni della suprema corte, la quale potrebbe essere spinta più dalle posizioni ondivaghe dell’opinione pubblica che da una propria e autonoma “politica del diritto”. Di questa fase, comunque, Barbosa è stato uno dei “volti”, noto per i suoi interventi e per le polemiche, spesso accese, con altri colleghi, compreso un autentico battibecco con l’allora presidente Gilmar Mendes, dal quale Barbosa ha preteso rispetto, intimandogli di non trattarlo come uno dei suoi “scagnozzi” (capangas) del Mato Grosso. Il tutto in diretta televisiva. Intervento dopo intervento, Joaquim Barbosa, che è, occorre dirlo, un giurista esperto che si è fatto strada da solo, per nulla sprovveduto e con studi qualificati all’estero, si è creato un’immagine di giudice tutto d’un pezzo capace di sfidare l’apparato: un’immagine costruita su un ethos che ricorda quello del presidente metalmeccanico Lula da Silva. Ora, però, qualcuno si chiede se dietro il rischio di politicizzazione della giustizia non si nasconda anche quello di giudizializzazione della politica. Il Brasile, in fondo, non è lontano come sembra.

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