Il 1961 fu un anno nero per Salazar.
Fu l'anno dei primi attacchi dei ribelli in Angola e dell'annessione, quasi senza colpo ferire, di Goa da parte dell'India di Nehru. Fu, in un certo senso, il primo anno della “orgogliosa
solitudine” del regime portoghese: l'anno in cui
apparve evidente a tutti che alla lunga sarebbe stato impossibile evitare la
perdita delle colonie.
Il 25 ottobre di quell'anno, più o
meno due mesi prima dell'invasione di Goa, la nazionale portoghese andò
a perdere per due reti a zero in casa degli inglesi, in una partita
valevole per la qualificazione al campionato mondiale. Sul campo di
Wembley, si fece notare soprattutto un giovane da poco arrivato a
Lisbona da Lourenço Marques (l'attuale Maputo, capitale del Mozambico), dov'era nato neppure vent'anni prima. Eusébio da Silva
Ferreira, o, più semplicemente, Eusébio, sarebbe diventato, di lì
a poco, la “pantera nera”, ribattezzato per sempre dal giornalista
inglese Desmond Hackett, che sul “Daily Express” raccontò la
storica finale di Amsterdam tra il Benfica e il Real Madrid. Quel
25 ottobre del '61 a Wembley, però, Eusebio era ancora la giovane promessa di una
nazionale che rappresentava, al meglio, quella nazione
“pluricontinentale” che proprio in quei mesi iniziava la sua
lenta disgregazione. Degli undici giocatori, soltanto l'algarvio
Cavém era nato in Portogallo. Tutti gli altri, a parte l'azzoriano
Mário Lino e il brasiliano Lúcio, provenivano dalle colonie
africane. Lo stesso selezionatore, Fernando Peyroteo, era nato in
Angola.
“Pluricontinentalismo” e
“lusotropicalismo” sono concetti chiave per capire
l'ultima stagione dell'imperialismo portoghese. Alle prese con i processi di decolonizzazione messi in moto, dopo la Seconda Guerra Mondiale, dalle altre potenze europee, Salazar, che aveva sempre
legato la sopravvivenza del Portogallo al mantenimento dell'impero, rispose costruendo l'immagine (fittizia)
di una nazione meticcia sparsa su tre continenti. L'“oltremare”
portoghese era soltanto una prosecuzione della “metropoli”, e il
Portogallo non era un paese piccolo, perché “Portogallo” erano
anche l'Angola, il Mozambico, la Guinea e gli altri spicciolati
sparsi tra Africa e Asia.
Questo ambizioso maquillage geopolitico aveva però bisogno, per essere completo, di una base culturale e una veste ideologica. Le fornirono, entrambe, le tesi del
lusotropicalismo brasiliano di Gilberto Freyre. Freyre aveva delineato, nel suo libro più celebre Casa-grande & Senzala, la
storia della singolare colonizzazione portoghese dei tropici. Il lusotropicalismo si basava sull'idea che i
portoghesi avessero mostrato una capacità unica di mescolarsi con i
popoli dei paesi tropicali che erano andati colonizzando, una capacità
che si sarebbe tradotta nel meticciato diffuso, nel sincretismo culturale,
nell'assenza di pregiudizi razzisti. Si trattava, com'è ovvio, di
un'idealizzazione, alla quale s'incaricò di rispondere l'antropologo brasiliano Sérgio
Buarque de Holanda, tratteggiando invece un quadro di inferiorità
del colonialismo portoghese rispetto, soprattutto, all'alternativa olandese, che il Brasile aveva brevemente conosciuto in
Pernambuco. Un quadro che, in qualche misura, Chico Buarque (figlio
di Sérgio) metterà in scena nel suo spettacolo musicale Calabar, scritto
insieme al poeta luso-mozambicano Ruy Guerra. Comunque, oltre che di una idealizzazione, si trattava, soprattutto, di una discussione tutta interna alla
cultura brasiliana, di una “narrazione” sulle radici del Brasile:
un tema che ha sempre attratto gli antropologi brasiliani, e sul quale più tardi si eserciterà, con molto successo e qualche semplificazione, Darcy Ribeiro.
Salazar diffidava di un'interpretazioe dell'impero basata, in ultima analisi, sulla maggiore propensione dei portoghesi al meticciato. Ma Salazar era soprattutto un pragmatico e a partire dagli anni Cinquanta si rese
conto che un approccio di questo tipo avrebbe potuto essere funzionale a una rappresentazione della colonizzazione portoghese come un caso peculiare,
diverso dagli altri e quindi destinato a ben altri sviluppi.
L'oltremare portoghese non era un'avventura di qualche decennio, di un centinaio di anni o poco più: non era una vicenda che poteva essere liquidata dall'oggi al domani con una
firma in calce a un trattato. Era la storia di “cinque secoli di
relazioni tra popoli e culture differenti” che avevano dato vita a
una società “plurirazziale” e a una nazione “pluricontinentale”.
Il Portogallo non aveva più colonie, ma “provincie
d'oltremare”, nei confronti delle quali esercitava una missione
civilizzatrice. Al di là del paternalismo, che traspariva anche da
questa versione edulcorata dell'imperialismo lusitano, la stessa ricostruzione storica era, in gran parte, funzionale alle politiche del regime. A cominciare dai “cinque secoli”, che erano tali, in
realtà, solo per i principali porti e le piccole isole africane,
mentre l'Angola e il Mozambico continentali erano stati faticosamente colonizzati solo a partire
dal XX secolo e, soprattutto, a partire dagli anni Trenta e Quaranta. L'appropriazione del lusotropicalismo da parte dell'Estado Novo
serviva proprio a giustificare questa nuova ondata colonizzatrice e
a marcare le singolarità dell'imperialismo portoghese. Il lusotropicalismo brasiliano si colorava così di una
tonalità mistica ed esoterica tipicamente lusitana, adeguata alla
visione messianica del “Quinto Impero”, predicato dal padre António Vieira e cantato da Pessoa. Si riconfigurava come un'identità in divenire, lo specchio
culturale di una promessa imperiale anacronisticamente riposta nel progetto (velleitario) di una nazione pluricontinentale.
I tredici anni di guerra coloniale si
sarebbero incaricati di infrangere tali illusioni, proprio come si andavano infrangendo, in quei primi anni Sessanta, le analoghe illusioni dei militari francesi d'Algeria, che
nel “piano Soustelle” avevano immaginato l’integrazione della
maggioranza araba in un’Algeria franco-musulmana autonoma e sotto il controllo dell’esercito. All'idea di un peculiare
lusotropicalismo ricorsero però, in extremis, anche quei generali portoghesi, tra i quali soprattutto António de Spínola,
che cercavano un'alternativa politico-militare sia all'indipendenza delle colonie che al crepuscolo del regime.

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